A cosa serve conoscere quattro lingue quando non si è in grado nemmeno di dire “buongiorno” in ascensore?
Qualche anno fa un intellettuale, che qualcuno riteneva anche “brillante”, definì lo scenario che si apriva davanti alla popolazione mondiale come l’epoca della fine della storia.
L’approdo cioè a quella forma di società sterile, ma ritenuta perfetta, la migliore.
Aristotele Onassis riassunse questo mondo quasi perfetto in una celebre battuta: “Non esistono per me amici o nemici, ma solo concorrenti”
Un’idea della vita fondata quindi esclusivamente sul successo, la competizione, la massimizzazione del profitto.
Essere competitivi significa alzarsi al mattino e attrezzarsi per vivere uno contro l’altro, pensare dal primo istante in cui si aprono gli occhi a quale traguardo occorre giungere durante la giornata.
Concepire la vita non solo come un perenne e costante campo di battaglia, ma come una sorta di sfida estenuante con se stessi.
Il rischio di non essere “performanti”, come dicono in maniera forbita manager e formatori, é vissuto come la peggior vergogna nella quale una persona possa incorrere.
Ciò che sfiora il ridicolo o il tragico, a seconda dei punti di vista dal quale si osserva il tutto, è che questa sorta di mantra, di religione moderna che risponde al nome di “competitività”, è diventata la dottrina e la parola di guru e coach che imperversano ormai nelle nostre vite.
Chiunque pensi, anche solo per un attimo, di non essere ” speciale, migliore, unico”, non solo è destinato ad una vita di stenti, ma ha quasi l’obbligo morale di sentirsi un reietto, un fallito.
È più sottile e molto più devastante per l’individuo, questa filosofia della vita rispetto al concetto della guerra classica.
In essa infatti l’obiettivo ultimo di ogni azione è l’eliminazione del nemico, ora, oltre a questo, c’è una costante battaglia con se stessi.
Ogni cenno di stanchezza, ogni pensiero riguardo l’assurdità di questo modello esistenziale allontana la persona da quell’idea di perfezione che dovrebbe farne un soggetto perfettamente amorale, irrispettoso di qualsiasi concezione dell’esistenza che non sia la competizione, mai indeciso, possibilmente senza scrupoli.
Non è consentita la debolezza, la sensibilità è peggio della bestemmia, la tenerezza nei propri confronti ed in quello del prossimo, una sorta di spazzatura morale dalla quale allontanarsi il più in fretta possibile per non esserne fagocitati.
Questo modello di vita non è solamente contro alcuni aspetti psicologici e sociali dell’essere umano, ma anche contro un’etica della vita ed un senso dell’esistenza che non possono essere ridotte alla sola idea della competitività.
Kierkeegard diceva “L’etica di una società è quella per cui un uomo diventa quello che diventa in base ad essa”.
Non è umano né tanto meno etico pensare ad un esercito di persone completamente invase da questa perenne guerra con sé e gli altri che risponde al nome di competitività.
Nemmeno gli animali, che vivono di istinti, si privano di momenti di relax, di dolcezza, di ” dolce far niente”.
Quello che ci differenzia dalle altre specie viventi è la cultura. Dobbiamo cambiare rotta.
Insegnare più poesia rispetto a tecniche di marketing, più arte rispetto ad asettiche contabilità che misurano, forse, il fallimento di una civiltà ed un’idea della vita.