Cosa avviene nella psiche delle persone sempre in prima linea quando si tratta di giudicare o criticare? Pronte anche quando il loro parere non viene richiesto?
L’origine della critica risale all’antichità, possiamo tranquillamente affermare che questa attività è vecchia quanto il genere umano!
I greci la definivano come la capacità di distinguersi, tant’è che, ad essa, si dedicavano specifiche persone, i critici appunto, la cui occupazione consisteva nell’analisi e nella valutazione del pensiero e dell’opera delle altre persone.
Senza entrare in uno studio sull’evoluzione di questa attività, che qualcuno definisce arte, occorre fare una riflessione su come oggi, in maniera crescente, la critica sia alla base non solo dei dibattiti politici, ma della vita quotidiana di tutte le persone.
Un atteggiamento, un abito mentale viene da dire, adottato da chi, invece di confrontarsi, parte in quarta a criticare, con la speranza di mettere spalle al muro il prossimo.
Voltaire diceva che criticare è molto comodo, quasi facile. Si attacca qualcuno con una parola, un frase, un giudizio sprezzante, spesso senza conoscere nemmeno a fondo come stanno le cose, e poi ci vuole una fatica immensa per riuscire non solo a difendersi, ma anche a ristabilire l’ordine delle cose.
Forse per questo oggi è tanto di moda criticare. L’obiettivo importante non è conoscere realmente come sono le cose, ma attaccare, subito, senza remore.
È quello che avviene ormai tutti i giorni, quando si legge di cronaca politica ad esempio, o quando si aprono i social network.
Qualcuno ama distinguere le critiche in costruttive e distruttive.
Il pastore evangelico John Maxwell, uno degli autori che più ha scritto di leadership e che, su come fronteggiare le critiche, ha speso fiumi di inchiostro, sosteneva che non esistono critiche buone o cattive.
Dipendono essenzialmente da chi le pronuncia e per quale motivo.
Una mamma o un genitore, ad esempio, che riprendono il figlio, lo sgridano e criticano il suo operato, si presuppone lo facciano per uno scopo educativo, per insegnare, talvolta anche correggere.
Ammesso che il loro punto di vista sia sempre quello giusto, questa critica ha un valore di insegnamento, non è pronunciata per un mero interesse personale.
Pur essendo il rapporto sbilanciato, cioè non alla pari, come lo è anche un rapporto di lavoro tra dipendente e capo ufficio o titolare, quello tra genitore e figlio è un rapporto che, sulla carta, non è volto ad ottenere un vantaggio, un obiettivo concreto, ma ad educare.
Diverso invece, come si capisce, il discorso che riguarda una critica sul lavoro.
Anche quando è fatta con le migliori intenzioni ed i modi dovuti, presenta sempre un obiettivo, un vantaggio esplicito.
Che, di per sè, non è immorale, ma distingue questa critica da quella spiegata in precedenza.
Dove, invece, non ci sono dubbi nel rigettarla, è quella che possiamo definire nascosta.
Quella fatta non solo alle spalle, non solo senza elementi concreti, condivisibili o meno, ma soprattutto volta unicamente a screditare qualcuno per un vantaggio personale.
Spesso vi ricorre chi ha consapevolezza dei propri limiti, e dimostrando la propria incapacità nel superarli, si rifugia nell’unico modo che conosce: criticare.
Criticare, in questo ambito, significa riconoscere ed ammettere esplicitamente la propria debolezza ed i propri limiti.
Non avendo altri mezzi per tentare di tenere testa ad una situazione, ad una discussione, ad una prova, ci si rifugia nella critica come manifesta proiezione della propria incapacità.
Charlie Chaplin diceva:
“Ti criticheranno sempre, parleranno male, per questo quando fai qualcosa, vivi come ti suggerisce il cuore”.