Riflessioni

Non rendere l’improbabile in qualcosa di impossibile – Il racconto buddista ci insegna ad avere fiducia in noi stessi

Publicato da
Deborah Doca

Lo facciamo spesso, più o meno coscientemente: trasformiamo l’improbabile in impossibile e in questo modo rischiamo di perdere anche le persone che amiamo.

L’improbabile non contiene nulla di assoluto, non esclude possibilità, anche se remote.

Qualcosa di improbabile è difficile che accada, che si realizzi, ma non è escluso.
Non è impossibile.

Cosa ci porta ad associare l’improbabile all’impossibile?
Cosa non ci permette di distinguere il loro significato?

LA PAURA

Le paure condizionano troppe volte le nostre speranze, ci provocano incertezza e tendiamo ad escludere, come forma di protezione probabilmente, tutto ciò che è incerto.

LA MANCANZA DI FIDUCIA IN SE STESSI

Avere fiducia in se stessi, nelle proprie capacita, essere coscienti di possederle, è importante.

La poca fiducia, la mancanza di autostima, ci porta a vedere tutto più difficile, non alla nostra portata e alla nostra altezza.

Partiamo scoraggiati a-priori e in questo modo ci priviamo di occasioni, di opportunità, perdiamo le persone.

IL RIFIUTO DEI CAMBIAMENTI

Il cambiamento è faticoso, ne siamo consapevoli. Rimette in discussione tutto quanto abbiamo stabilito, conquistato, elaborato.

Richiede forza e un nuovo equilibrio.

Persino realizzare un sogno porterebbe scompiglio, meglio continuare a ritenerlo impossibile.

Eppure sono tante le occasioni di miglioramento, di crescita, che perdiamo restando ancorati nella nostra posizione.

La nostra stessa felicità perdiamo mentre timorosamente, comodamente, testardamente continuiamo a ritenerla qualcosa di impossibile.

A tal proposito vogliamo riportarvi un racconto buddista, affinché vi offra un momento di riflessione e vi aiuti a comprendere meglio quanto finora detto.

“Un uomo, che aveva perso la moglie durante il parto, stava allevando suo figlio da solo e lo amava più di ogni altra cosa al mondo.

Un giorno, mentre il padre era fuori casa, dei saccheggiatori bruciarono la maggior parte della città e rapirono suo figlio.

Quando il padre tornò, confuse uno dei cadaveri bruciati e pensò che fosse suo figlio.

Completamente devastato dal dolore, fece cremare il corpo e mise le ceneri in un’urna che collocò nel posto migliore della casa.

Alcuni giorni dopo il ragazzo, che era riuscito a fuggire ai saccheggiatori, tornò di corsa a casa e bussò alla porta della casa che suo padre aveva appena ricostruito.

L’uomo chiese chi fosse. Quando il ragazzo rispose: “Sono io, tuo figlio, ti prego, fammi entrare…”, il padre strinse forte sul suo petto l’urna con le ceneri e pensò che un bambino del villaggio gli stava giocando uno scherzo crudele.

“Vai via!” – urlò.
Il ragazzo continuò a bussare alla porta e implorò il padre di aprirgli.

Tuttavia, l’uomo, convinto che non fosse suo figlio, continuava a dirgli di andarsene.
Alla fine, il ragazzo si arrese. Se n’è andò e non tornò mai più.”

Quante volte, come questo padre, abbiamo stretto al petto le nostre paure, le nostre verità, le nostre certezze e ci siamo preclusi la possibilità di essere felici?

No, non rispondeteci, riflettete con calma e in silenzio.
Meritate una simile riflessione, meritate la felicità